La zia Iride e lo zio Ameleto erano dei miti. Nessuno li riconosceva o li avrebbe mai riconosciuti come tali. Ma lo erano. A prescindere. Lei col suo bel faccione rotondo, gli occhi marroni lucenti sotto dei capelli grigi tirati all’indietro e raccolti in una crocchia da vecchia. Il suo abbigliamento era anch’esso tipico delle vecchie livornesi, anche se aveva cinquant’anni o poco più: una vestaglia a fiori, leggera d’estate, e di peloncino in inverno con uno scialle e l’immancabile sciarpa annodata al collo, quasi sempre rossa.
Lo zio Ameleto veniva a trovarci dopo cena. Si sedeva con noi al tavolo con l’incerata, sotto la luce fioca della lampada di cucina. Mio padre aveva acceso la radio e ascoltavamo insieme la commedia trasmessa quel giorno. Lo zio aveva le dita ingiallite dalla nicotina e i radi capelli crespi con qualche sfumatura di rosso. Faceva il pescatore, da quando era stato licenziato dalla Richard Ginori, per aver rifiutato la tessera del fascio, da bravo anarchico, come molti livornesi di quella generazione.
Gli zii ci avevano invitato a pranzo da loro, per la prima e unica volta, forse all’inizio delle vacanze di Natale.
Io e mio fratello avevamo costeggiato il fosso reale dove i pescatori ripulivano le chiglie delle barche davanti alle cantine aperte sul molo. Sulla superficie dell’acqua si specchiavano i riflessi tremolanti delle case color pastello. Poi ci inoltrammo nelle viuzze che ben conoscevamo, per esser nati e vissuti nel quartiere “Pontino”, sui marciapiedi stretti dove si affacciavano le bottegucce di alimentari, o “bottegacce” come le chiamava babbo per la scarsa qualità della merce. Più in là un vinaio, un tabacchi e infine via della Cappellina. Un nome antico e suggestivo che faceva apparire quasi belle le case con i muri color ocra, i portoni di legno consumato dal tempo e un vago odore di spazzatura nell’aria.
In cima alla scala stretta e ripida, in piedi sulla porta ci aspettava la zia, col grembiule stretto in vita, le maniche del golfino arrotolate sopra i gomiti. «Forza, belli, ora si spenge il gas e si va a tavola».
Lo zio Ameleto, con la sigaretta accesa tra le labbra, leggeva il giornale seduto accanto alla finestra che si affacciava sulla strada.
L’odore che veniva dai fornelli era invitante: un misto di aglio, prezzemolo e pomodoro, con una punta di qualcos’altro che non conoscevo.
E apparve il tegame di chiocciole al sugo, cucinate con molto peperoncino. Il sapore dell’intingolo sul pezzo di pane che avevamo usato per il primo assaggio era davvero buono. Più difficile estrarre la lumaca dal guscio dopo averla infilzata con lo stuzzicadenti e superare il lieve ribrezzo che quel cibo insolito suscitava. Ma in qualche modo ci riuscii, con l’aiuto della zia, mentre mio fratello, da bravo ometto, faceva tutto da solo. Non c’era primo, secondo o contorno ma solo chiocciole al sugo e pane in abbondanza, per non parlare del vino rosso che noi bambini bevevamo rosato, cioè abbondantemente allungato con l’acqua.
«E la frutta, zia, dov’è?», domandai candidamente, alla fine del pranzo, mentre il visetto di mio fratello si faceva più serio sotto la massa di capelli neri e mossi, con una vaga espressione di disapprovazione nei confronti della sorella linguacciuta o “chiacchierina” come mi chiamavano in casa.
«La frutta non c’è, bella. La zia è povera, lo sai».
Lo zio Ameleto sorrideva sornione, certo divertito dalla mia candida indiscrezione e dall’aria censoria di mio fratello, solo di poco più grande di me.
Mi zittii un po’ mortificata, ma non capii. Davvero la frutta è un bene di lusso, avrei chiesto, se il mio vocabolario di bambina avesse posseduto quelle parole.
Dopo tutti questi anni ricordo quella frase come ricordo la camera matrimoniale, con un triste copriletto e nessuna finestra.
«Tu lo fai l’albero?» chiesi alla zia, che intanto frugava in un cassetto del comò alla ricerca di qualche caramella per me e per mio fratello.
«No, nini, non lo faccio».
«E il presepe?»
«Non credo proprio, sono cose da bimbi…»
Aleandro era entrato nella stanza e stava appoggiato al muro con le mani in tasca.
La zia ci aveva consegnato una caramella a testa e le avevamo infilate subito in bocca.
«Però» disse lei con un guizzo birichino negli occhi color nocciola, «vi insegno una canzone di Natale che di sicuro non conoscete» .
«Tu scendi dalle stelle o dio beato / c’è Cecco sotto il letto rimpiattato…» intonò con la sua bella voce squillante, solo leggermente roca.
«Non cantatela a dottrina, mi raccomando» disse la zia vedendoci ridere divertiti.
Io mi ero chinata addirittura ai piedi del letto per controllare che non ci fosse davvero Cecco rimpiattato.
«Sai, io e lo zio non siamo tanto religiosi. Siamo anarchici e anche comunisti» ci spiegò la zia.
«Però non mangiamo i bambini» scherzò lo zio Ameleto mentre si infilava la giacca per scendere giù dal vinaio sotto casa per giocare a carte.
«Mangiate le lumache», dissi con aria furbetta.
Aleandro mi ricordò che la mamma ci aspettava per andare all’Upim.
Più tardi, in mezzo alla confusione e alle luci delle strade del centro, in cui camminavamo con le buste piene di decorazioni per l’albero, continuai a pensare alla casa degli zii, alle lumache e a Cecco rimpiattato sotto il letto.
La foto di copertina è opera del reparto grafici di ala
Bellissimo squarcio, Rosalba; quasi un quadro del Natali ma con una maggiore vivacità.
Mi hai fatto ricordare Ginetta e le sue chiocciole, anzi, le su’ ‘iocciole.
Senza peperoncino però, se ben ricordo. Le ‘iocciole di Ginetta erano inibitabili e famose in tutto il vicinato. Da via s. Andrea a piazza dei Mille, dalle “Quattro fonti” a piazza Oberdam.
Dal vinaio, alla pettinatrice, al tortaio, alla baracchina dei datteri, alla latteria, perfino dal norcino, tutti sapevano che le ‘iocciole, come le faceva Ginetta, nessuno mai.
Non ho mai capito quante ne facesse, ma ce n’era per tutti. Da me le portava personalmente fino a tre piani (Ginetta stava a terreno), gli altri andavano a prendersele. Rimenere senza un assaggio delle ‘iocciole di Ginetta era quasi un affronto difficile da perdonare. Tanto che dubito che ne rimanesse per lei.
Non so se le cose andassero proprio così. Certo che quel mondo, il mondo di Ginetta e delle sue inarrivabili ‘iocciole era bello. Avere permesso che si perdesse è stato un peccato imperdonabile.