#PABlog Tema 8: Il Tempo
La nostra era di legno, plastica e bachelite, ingombrante ma neanche troppo rispetto ad altri cassettoni in voga, con le manopole rotonde e l’occhio che si illuminava, al centro. In realtà l’occhio era una valvola che mandava una strana luce verde attraverso un buco; ad illuminarsi ci metteva un po’, ad affievolirsi e divenire ombra altrettanto. Mentre il selettore di stazione scorreva tra le dita, si potevano udire certe sguerguenze sonore buffissime, fischi e mezze parole, anche straniere, pronunciate da voci nasali che arrivavano da chissà dove. Poi ancora altre valvole, fissate e nascoste all’interno, in equilibrio stabile su certi piedini saldati. Mio padre si dilettava a ripararli, quegli apparecchi, perciò li vedevo spesso aperti, sbudellati che pareva impossibile riuscire a rimontarli come prima.
Col passare degli anni le valvole, affascinanti tubi di vetro ripieni di elettroni, amplificatori di suoni stimolati dalla calda passione tra catodi e anodi, vennero raffreddate e gradualmente spente, come si fa con le cose obsolete, una dopo l’altra. Giovani e minuscoli transistor irruppero trionfalmente facendosi spazio in nuovi, incredibili diffusori dalle comode dimensioni, rendendo l’accessibilità alle trasmissioni di canzoni, segnali orario e notizie alla portata di una popolazione sempre più in movimento. Venne accontentato anche chi già era poco propenso a portarsi dietro i successi del momento assecondando la lunghezza limitata di un cavo attaccato ad una presa. Il boom passò anche da lì, e nel suo vorticoso avanzare sconvolse le onde nell’etere e il modo di navigarle, in tutti i sensi. Un cambiamento che elettrizzò anche noi in famiglia, con un prodotto aggiornatissimo, la vecchia radio di legno che vi dicevo prima ormai a riposo nella polvere della soffitta. Nuove consuetudini levitavano sulla radiodiffusione, un big bang che continuava ad espandersi nell’aria facendosi inseguire dalle tecnologie del dopoguerra.
All’ora di alzarsi, mamma aveva preso l’abitudine di accenderla, quella radio speciale, un apparecchio che oggi sarebbe ricercatissimo e che definiremmo, con la poca fantasia che ci resta, vintage.
Per noi di allora era modernissimo, dato che mio padre lo aveva regalato alla mamma facendoselo portare da un conoscente, un rivenditore che aveva esposto alla Fiera di Milano. Era un rumoroso parallelepipedo dallo châssis di robusta plastica grigia, con una comoda maniglia rigida, non ancora pieghevole come ebbero gli apparecchi che furono sviluppati dopo, ma con l’alimentazione a batteria, una vera novità per quegli anni, con sei pile di quelle grosse che ci mettevano tanto a scaricarsi.
Stavano raggruppate sotto uno sportellino che scorreva alla base dell’apparecchio e che solo babbo aveva il diritto di rimuovere. In effetti era meglio così, perché se avessimo, la mamma o io inavvertitamente o per disattenzione, ma sempre sciaguratamente, invertito la posizione delle pile nel cambiarle, apriti cielo!
Facesse lui, dunque, che era meglio, anche a costo di aspettarlo quando tornava dal lavoro la sera, in silenzio, facendo a meno, in quelle lunghe ore casalinghe, della musica, dei notiziari o del consueto cìu cìu intrecciato dall’etereo becco dell’uccellino del segnale orario. Eppure, quando mamma si accorgeva che le pile stavano esaurendosi, le tentava di tutte per ristabilire quel filo con il mondo, premendo a turno i quattro tasti che stazionavano sotto la maniglia. Sforzi senza successo, perché quelli non erano altro che interruttori acceso/spento e selezionatori delle onde, che all’epoca erano corte, medie o lunghe, non ancora FM, una vera chicca quella, che permetteva un migliore ascolto, senza scariche elettrostatiche.
Mamma se lo portava per tutta la casa, quell’oggetto sonoro, e non se ne separava mai, al punto che se volevi sapere dove fosse bastava seguire la musica e lei era là. Le faceva compagnia quando era sola. E nello stesso tempo la teneva informata su quello che succedeva fuori da quel suo mondo inscritto nel perimetro delle strade del nostro quartiere, limitato anche se centrale.
Freschi i ricordi di quegli anni: il ritorno da scuola col grembiule sbottonato e l’appetito incombente nel sottofondo delle gag quotidiane di Arbore, Boncompagni e Marenco in “Alto Gradimento” o nella “Hiiiiit Parade!” di Lelio Luttazzi al venerdì. Ma mi ricordo anche di una mattina presto di Natale quando, in un momento di poca luce ma di tanta serenità, la radio trasmetteva una canzone, forse di Charles Aznavour: parlava di America e di San Francisco. Io in pigiama giocavo coi Lego appena scartati e mamma faceva il ragù. Ce l’ho ancora nella mente, quel motivo. Ma non lo trovo più, neanche menando goffamente input come fossero pugni a caso su Google o Spotify, come solo un boomer del resto può fare. Neanche chiedendo a quell’Alexa là che illumina un tubo e che pare saper di ogni cosa. Pazienza. Però mi volto indietro e mi pare impossibile: 70 anni di radio e sono cresciuta con lei.
Fonte delle illustrazioni: Pixabay.com
Non faccio una recensione ma…brava patrizia come sempre! Ricordo i dopo cena alla radio intorno a un tavolo da cucina, con lo zio amuleto, anarchico e pescatore. Io ero convinta che nel bussola parlante si nascondere un omino o una donnina mignon in carne e ossa!
Zio ameleto