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Scomparse

... ma c'erano anche loro

Passi leggeri, passi frettolosi,…
passi affannati lungo quei corridoi recintati da finestroni quadrettati in legno usurato. Corridoi che hanno visto una moltitudine di persone apparire e poi scomparire: medici, infermieri, allievi infermieri e suore!
Molti ignorano che nel monumentale Ospedale con il suo ingresso a impostazione neoclassica e dalle colonne in marmo di Carrara, un tempo lontano, ma non lontanissimo, in molti settori se non in tutti, vi operavano le Suore della Congregazione di San Benedetto Cottolengo. L’Ospedale di Viale Alfieri, voluto dal Presidente del Consiglio di Amministrazione Giuseppe Costa e con la prima pietra, posta e benedetta da Monsignor Piccioni nel 1929, ebbe la sua monumentale opera terminata in soli due anni.  L’architetto Ghino Venturi, esecutore del progetto, ebbe numerose critiche da parte di chi sosteneva che gli edifici disposti su un piano orizzontale anziché verticale fossero troppi e dispersivi.
Vecchie e nuove critiche, mai estinte, comunque dissensi a parte, il primo novembre del 1931, il re e la regina presenziarono alla solenne inaugurazione dell’Ospedale di Viale Alfieri: “Costanzo Ciano”.

Ospedale 1931, dal gruppo Facebook Livorno come era (Franco Dentone)

La comunità livornese partecipò numerosa
e stupita della presenza di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, ma ancora più stupita di quella struttura faraonica che faceva dimenticare per sempre il vecchio Ospedale di San. Antonio di Via San Giovanni.
Dopo la cessazione della loro attività presso l’Ospedale di Viale Alfieri, le Suore del Cottolengo, la cui Casa Madre era a Torino e là ritornarono, troppo presto e ingiustamente sono finite nell’oblio. Eppure, erano loro che per anni, dopo la messa nella cappella della loro spaziosa Casa Madre si recavano nei numerosi e numerati reparti ospedalieri. Reparti che avevano come punto di riferimento la bellissima cappella dell’Ospedale e nella quale avevano lavorato per gli affreschi sia alle pareti che alle vetrate i pittori Michelozzi e Natali.
Velo e tonaca nera ricoprivano le consorelle di un reverente anonimato, ma alcune di loro suscitavano curiosità e erano pure oggetto di leggende più o meno sussurrate.

Una di queste leggende
si riferiva a una suora bellissima che quando camminava lungo i bianchi e luminosi corridoi dell’Ospedale suscitava stupore e ammirazione. Con assoluta certezza e talvolta con il dubbio, si sussurrava che questa suora fosse stata la fidanzata di un giocatore del Torino, uno dei giocatori morti nel disastro aereo di Superga.
Forse sì! Forse no! Ma tutti preferivano pensare che quella bellissima giovane donna distrutta dal dolore avesse preso i voti nell’Ordine religioso, più vicino alla sofferenza.

Le Suore del Cottolengo,
alcune indimenticabili, altre meno, erano molto discrete e parlavano solo lo stretto necessario, ma inevitabilmente vi erano eccezioni.
Suor Pierina, “nomen omen”, pettegola seriale, sapeva tutto di tutti e soprattutto dei giovani medici terrorizzati da un primario in perenne crisi di nervi. Golosa compulsiva, Suor Pierina, aveva sempre con sé, nascosta in una tasca del suo bianco grembiule, una scorta di cioccolatini che in barba al precetto della generosità, si guardava bene dal condividere.
La Superiora della Casa Madre aveva deciso e a buona ragione che Suor Pierina, operasse a stretto contatto con la caposala del reparto di Chirurgia Generale, Suor Leopoldina. Questa, magra magra e stimatissima, era la prima persona che il primario desiderava vedere per essere aggiornato su tutto ciò che era successo in sua assenza. Dal profondo sguardo indagatore e con una voce roca e sensuale che non si addiceva a una religiosa, Suor Leopoldina riferiva ogni particolare su tutti quei pazienti che, al suo ingresso in reparto, era abituata a salutare ad uno ad uno.
Certo è che Suor Pierina avrebbe avuto molto di più da raccontare a quel primario in perenne crisi di nervi e chissà forse sarebbe stata pure taumaturgica.
E poi altre, altri nomi, non i veri nomi, poiché le Suore del Cottolengo, insieme al velo portavano adottavano un nuovo nome che le avrebbe accompagnate lungo la loro vita. Quando Suor Emma, una fra le tante, silenziosa e a piccoli passi camminava lungo il corridoio del Reparto da lei diretto, sembrava una che fosse capitata lì per caso, ma dal primo momento intuivi che era “lei”, la presenza e a non esserci eri tu. Pelle bianca da nordica e occhi di ghiaccio, di lei si diceva che fosse un’aristocratica. Forse sì, forse no, ma il suo modo di presentarsi era diverso da quello delle consorelle.
Consapevole o no, Suor Emma manteneva le distanze e dava del lei a tutti, anche ai giovani allievi infermieri, visibilmente disorientati dal suo freddo comportamento.
Non tutti soffrivano di quella mancata attenzione, fra loro vi era un’allieva desiderosa solo di vivere anonime giornate in quel reparto che non riteneva così interessante come invece era il reparto di Chirurgia, dove l’atmosfera era sempre di continua emergenza.

Si racconta che
un giorno una voce imperiosa riportò l’allieva alla realtà: «Venga con me», le fu intimato. Disorientata e ignara di ciò che le sarebbe capitato, l’invisibile allieva, dallo sguardo assente e un po’ stralunato per il suo ostinato rifiuto di portare occhiali, seguì Suor Emma con palese indifferenza, in realtà era travolta da un tumulto di emozioni, inconsapevole pure che a distanza di anni quelle emozioni sarebbero state ancora vive in lei.
Sempre a suo modo, Suor Emma si bloccò dinanzi a una porta socchiusa, poi, parlando più alla porta che alla sua giovane vicina, disse che una paziente era deceduta da poco e spettava a loro il compito di preparare e vestire il corpo.  Con tono impersonale, Suor Emma aggiunse che la signora era ebrea e solo alcuni indumenti erano idonei per la sua ultima vestizione.
Fino ad allora e per una strana coincidenza che governa i turni ospedalieri, all’allieva non era mai capitato di essere presente al tragico evento. Quella volta però, a contatto con quel corpo privo di vita, ma ancora caldo, provò un turbamento tale da farle tremare le mani.
L’allieva eseguì gli ordini di Suor Emma in realtà, anzi le indicazioni, perché il tono della voce era diverso dal solito. L’invisibile, osservando il viso della sconosciuta, si domandò se un giorno qualsiasi, in una via qualsiasi di quella città, si fossero mai incontrate. E il nome? Quale era il suo nome? Controllare adesso i dati nella cartella appesa in fondo al suo letto sarebbe stato un tradimento, poiché l’espressione piena di stupore del bel viso della sconosciuta aveva in sé tutti i nomi che portano alla sacralità di quell’attimo l’ultimo in cui la vita si arrende e cede il passo alla morte!
All’improvviso per una folata di vento o per mano misteriosa, la porta della stanza si spalancò e, appoggiato al muro del corridoio, apparve un ragazzo dai capelli ricci che piangeva in modo convulso e, con sguardo severo, osservava mani estranee su quel corpo che amava e che presto non avrebbe più rivisto. Vita e morte si alternano in modo frenetico in Ospedale e ogni volta che la giovane e inesperta allieva si fosse trovata a confronto con la morte di un paziente, la memoria l’avrebbe riportata alla perfetta sconosciuta che, con il suo inafferrabile sorriso, pareva chiedere scusa per il disturbo, al pianto inconsolabile del ragazzo e al viso pietrificato di Suo Emma. Indifferenza o maschera di chi, con gesti professionali e poche parole, aveva dato una severa lezione a una giovane in schizofrenico torpore che il calarsi nel mistero della morte è tutto fuorché impersonale, ma che è pure un doveroso atto nei confronti della vita!

I brevi ritratti qui menzionati di alcune Suore del Cottolengo non danno voce alle tante, molte Suore della Congregazione che per anni con la loro umana e quotidiana assistenza hanno dato un gran contributo alla popolazione della città di Livorno.  La loro presenza è datata fin dal 1895 presso l’Ospedale di San Antonio di Via San Giovanni e proseguita per altri lunghi anni presso gli Spedali Riuniti di Viale Alfieri.

Ospedale di S. Antonio, dal gruppo Facebook Livorno come era (Salvatore Zocco)

Sulle labbra di queste benemerite
vi era sempre il “Deo Gratias”, significava che ogni sofferente non era mai anonimo e aveva diritto alla loro attenzione.
La testimonianza di una umanità secolare merita un atto alla memoria anche da parte di chi ignora la loro passata presenza nella sempre unica e appassionata vita della città di Livorno. 

Catia Giaconi

Foto di copertina di Shoeib Abolhassani (Unsplash)


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