Non ricordo di aver mai visto la pasta con il pesce sulla tavola durante i primi anni della mia vita fra Rosignano Solvay e Livorno. Ogni tanto, preparavano baccalà “dolce e forte” al pomodoro con gocce di aceto, uvetta e pinoli, anguille fritte o in umido e muggini al forno, piatti che, per me, all’epoca erano immangiabili. Fortunatamente, c’erano anche le acciughe sott’olio, da stendere sulle fette di pane imburrato, il tonno, che amavo soprattutto d’estate, abbinato ai pomodori freschi e, in inverno, con i fagioli lessi. Di rado comparivano le imperdibili cozze ripiene, preparate con carne macinata, pane ammollato, uovo, scaglie d’aglio, prezzemolo, formaggio grattugiato e un po’ di mortadella, da tuffare in abbondante sugo di pomodoro.
Fui io, appassionata di cucina, a inventare la prima pasta con i sapori del mare. Innamorata della pesca tra le buchette, allora ricche di vita, con secchielli, coltello e bastoncini con punta metallica, portavo a casa le patelle staccate con cura dagli scogli, i granchi pelosi e i gamberetti, che cominciai a cucinare con qualche pomodorino.
Poi arrivò un salto di qualità. Mio padre aveva l’abitudine, ogni settembre, di raccogliere i ricci di mare, aprirli con la sua mano esperta, annaffiarli con succo di limone fresco per mangiarli con il cucchiaino, accompagnati da fette di pane fresco.
Finalmente, a quindici anni, ebbi il tanto sospirato permesso di raccoglierli da sola nella baia di Crepatura, tra Solvay e Castiglioncello. Arrivare a casa con i sacchi stracolmi della mia raccolta era quasi un trionfo personale. E fu proprio allora che ebbi l’idea di utilizzarli per condire la pasta.
Un piatto che è entrato nella mia vita familiare è stato anche la pasta con i granchi di fiume, dopo una pesca notturna – che allora potevamo fare – lungo il corso d’acqua del Chioma, che si getta in mare a sud di Quercianella. Durante le notti estive senza luna, con il mio babbo e qualche ospite, risalivo dalla sua foce verso l’interno, tra fitta boscaglia e scorci di terreno allora coltivato.
Il mio babbo infilzava le anguille, facendo attenzione a non confonderle con le bisce che, ogni tanto, sfuggivano davanti a noi, mentre gli ospiti, meravigliati e talvolta un po’ timorosi, con un retino raccoglievano i piccoli muggini, immobili davanti al nostro fascio di luce. Io, invece, afferravo al volo i grandi granchi di fiume, mostrandoli in giro con l’entusiasmo dell’età. Qualche uomo, anche adulto, indietreggiava spaventato e stupito dal mio coraggio. In realtà, era solo il risultato di aver imparato come afferrarli! Il giorno dopo, mia madre metteva in tavola la pasta con i granchi, seguita dalle anguille in salsa, da quelle fritte con i piccoli muggini, assieme a grandi insalate fresche e verdura fritta, dorata e croccante. Era una grande festa, animata sempre dal racconto della pesca notturna!
A Livorno, quando mi trasferii con i miei genitori, ancora ragazza, scoprii la grande varietà di “paste di mare”. La città mi svelò i suoi segreti gastronomici: il mercato del pesce, il suo odore pungente ma irresistibile, le voci concitate dei venditori che annunciavano il pescato del giorno, gli innumerevoli ristoranti e trattorie a base di pesce. Fu qui che incontrai i piatti che avrebbero segnato il mio amore per la cucina livornese: le triglie, la frittura di pesce, il cacciucco da abbinare al vino rosso e la grande varietà di pasta e sughi con il pesce, i crostacei e i molluschi.
Fui conquistata dalle bavette al ragù di mare, un primo semplice, ma che racconta una tradizione antica, quella delle donne di Livorno che, con ingegno e pazienza, trasformavano il pesce meno pregiato in un piatto ricco e saporito. La ricetta me la insegnò una vecchia cuoca livornese che, con un sorriso orgoglioso, mi confidò: “Era una pastasciutta ricca, che preparavamo quando i pescatori, venduto il pesce migliore, ci lasciavano a buon prezzo quello da minestra. Ma noi, donne livornesi, siamo riuscite a fare magia con quello”.
Le foto sono opera dei grafici di ala
Fiorella Chiappi
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