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Turismo itinerante in Francia. Ho appena lasciato Digione e viaggio con calma per i panorami della Borgogna e i suoi mille boschi.
Ma vuoi lasciare la Borgogna senza del vino di quello bono? Se si venisse a sapere magari si offenderebbero. D’altra parte, dice la moglie, non puoi mica prosciugare definitivamente per questo il budget destinato al viaggio e ormai scarso? Ingaggio un brain storming con la moglie con scarse possibilità di raggiungere un qualche compromesso finchè, in uscita dal boschetto con tanto di gnomi incorporati, la fata del luogo mi viene in soccorso:
Vigneti, un edificio che potrebbe essere una masserizia e un cartello promettente. Nel mio francese meno che stentato potrei leggere qualcosa del tipo: vendita di vino direttamente dal produttore. Insomma, forse questo è il cercato equilibrio tra vino che viene e budget che va.
Lascio la statale e mi inoltro su un vialetto di ghiaia e polvere fino a un parcheggio di polvere e ghiaia.
Lì per lì sembra un deserto dato il silenzio che ci avvolge appena spento il motore, poi un tale che ha tutta l’aria di essere francese si affaccia da una porta, non so se attratto dal rumore o dal polverone. Sorride, invitante, la mano si alza in un abbozzo di saluto. Scendo dalla macchina e lascio la portiera aperta perché fa già un gran caldo. Mi prende la mano e la stringe con vigore fino a farmi quasi male.
Gli chiedo se ha del vino; una risata come dire: povero italiano scemo, ma non hai visto le vigne, non lo sai che sei in Borgogna? D’altra parte, io non so il francese e da qualche parte dovevo pure cominciare.
Mi fa cenno di seguirlo ed entra nell’edificio. È un punto vendita, con bancone e bottiglie su bottiglie. Ecco, siamo arrivati, penso. Invece no; continua a parlare mentre io non capisco un tubo, scompare un attimo in una porticina dietro il bancone, risbuca fuori un attimo dopo e, con il ditone, mi fa cenno di seguirlo. Si scende una scala ripida e stretta e nel buio che contrasta la luce accecante del parcheggio, vedo che siamo in cantina.
Non si può sbagliare: ci sono botti e tini di ogni dimensione e c’è l’odore, inconfondibile a qualsiasi latitudine. Di vino buono, si, ma anche di muffa, di freddo e non so di cos’altro che fa, di una cantina, una cantina, a tutte le latitidini. Se non ci fosse lui che parla un incomprensibile francese mentre indica l’una e l’altra botte, potrei essere in una qualsiasi cantina di un qualsiasi viticoltore italiano; dal piemonte alla sicilia, tutti uguali.
Prende una bottiglia e me la mostra. Non faccio a tempo a leggere niente ed è già sulla scala che risale. Cavatappi, una botta da esperto e via. Si sente già il profumo.
Prende due bicchieri mentre continua a parlare, forse chissà, a declamare la bontà del suo vino, poi li riempie; fino all’orlo malgrado la mia mano che dice basta così, mentre la sua testa si ostina a dire ouì e ouì e ouì.
Poi si ferma, finalmente tace e aspetta che io beva. Timidamente afferro il bicchiere, cercando di non versare il contenuto, odoro il buquet, da intenditore, prendo un sorso, lo tengo qualche secondo e lo mando giù.
Sarà perché suggestionato dalla cantina e dal francese, la lingua voglio dire, che quando si tratta di mangiare e bere, anche se non capisci nulla sembra suggerire chissà quali delizie per il palato, sarà perchè con quel caldo che fa ho una gran sete, ma quel vino mi sembra un nettare, un assoluto equilibrio tra forza, fragranza, sapore e qualunque altra qualità che io conosca nel vino.
Lo vedo deluso. “Me no…” Questo lo capisco. Disapprova, scuote la testa, recita quella che ha tutta l’aria di essere una ramanzina, poi prende il suo bicchiere. Lo porta alla bocca così rapidamente da prevenire qualunque sversamento e, con un sorso solo, il bicchiere è meno della metà.
Mi guarda come si guarda un povero sottosviluppato e, con la mano aperta, accenna al mio bicchiere quasi pieno.
Ah, sì? Hai sbagliato indirizzo, vecchio mio. Te lo faccio vedere io come beve un livornese.
Prendo il bicchiere, lo sollevo a brindisi e giù. Scende che è un piacere; lo stomaco ringrazia, e non solo lo stomaco. Ora ride, soddisfatto. Dice qualcosa che sa di bonario, poi finisce il suo vino. Io faccio altrettanto con il poco che è rimasto.
Contrattiamo il prezzo di quattro bottiglie. Il prezzo è ragionevole così gli dico che va bene, affare fatto. Con la moglie me la vedo io. Prende le bottiglie, mi fa notare che hanno la stessa etichetta di quella che abbiamo bevuto, le introduce con cura in apposito contenitore, gli porgo il denaro, sorride compiaciuto, mi dà una pacca sulla spalla insieme al resto. È molto soddisfatto di sè.
Un’idea mi si presenta in testa. Forse nel bagagliaio ho ancora una bottiglia… gli dico: “attendè” che è una delle poche parole francesi che conosco e che magari è sbagliata ma so che loro la capiscono; lascio lì le bottiglie e vado tra la polvere e la ghiaia del parcheggio. È proprio così: ce n’è rimasta una. L’afferro come un’arma, ignoro le proteste della moglie e rientro a passo di carica. Ma chi ti credi d’essere, contadino francese; te lo faccio sentire io il vino, te lo faccio sentire!
Poso con decisione la bottiglia sul bancone e gli dico, con voce e segni: aprila. Mi guarda, non capisce, ma io insisto: aprila.
È perplesso, ma ha capito. Prende due bicchieri puliti, più belli, più da assaggio e mi sembra un buon segno di rispetto e di stima, poi affonda la vite nel tappo.
Il colpo secco è di buon augurio e, quando riempie i bicchieri, già si sente il profumo forte, virile, del Bolgheri di casa nostra.
Ora sono io a invitarlo a bere, il palmo della mano aperta verso il bicchiere.
Alza il calice, lentamente, quasi il prete sull’altare. Guarda il vino in controluce, poi guarda me: un misto di sorpresa e di piacere. Odora, sorseggia, assapora. Poi un altro sorso, deciso e robusto. Gli brillano gli occhi.
Dice: vino italiano. Lo dice in italiano, poi, in inglese: Wonderful.
Mi fa cenno di bere e riprende a parlare, riempie ancora i bicchieri, parla, beve a sorsi grandi e indica me col ditone, poi sé stesso con il pollice sullo stomaco, si fa sempre più vicino, fino a sfondarmi il torace a ditate. Il fiato sa di uva fermentata. Mi allarmo un po’, ma il vinaio di Borgogna unisce le sue due mani e stringe forte. Un simbolo di unione, senza dubbio. Io e lui insieme, legati da bicchieri di vino tra loro stranieri.
Al terzo bicchiere capisco perfettamente il suo francese e, a quanto pare, lui il mio italiano. Parliamo di umantà, di fraternità, di uguaglianza. Ci diciamo amici, grandi amici, mi assicura che verrà a Bolgheri e verrà a trovarmi in Italia anche se dimentica di chiedermi indirizzo e numero di telefono.
Nemmeno il nome mi chiede, nè io chiedo il suo. Fratelli l’uno all’altro ignoti, ma fratelli, nella certezza indiscutibile scritta col sangue sul fondo di bicchieri di vino.
Mi insegue nel parcheggio per darmi le bottiglie che ho dimenticato sul bancone e, prima che la polvere lo inghiotta, alza la mano che stringe ciò che resta del Bolgheri e mi urla dietro: vive l’Italie.
Direi che questo brano è brioso e frizzante come il vino assaggiato dai due protagonisti
Sono in Corsica in questo momento e oltre al profumo di mirto e di rosmarino mi arriva il profumo del tuo vino!