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Il viaggio di una vita

Vita nomade

Per me, le giornate in città, da molto tempo sono diventate insopportabili. Chiudo gli occhi e rivedo quelle distese di sabbia dorata che brilla al sole dalle quali provengo.

Il capo della nostra tribù di Tuareg, si era opposto che io andassi a Djenne a studiare. Diceva che non serviva molto essere colti per vivere nel deserto. Invece, i miei genitori hanno insistito perché andassi a una scuola per diventare un uomo importante, e abbandonare la vita da nomadi, sempre sotto il sole spietato, la sabbia fino dentro ai capelli, le ore calde passate nelle tende di pelle di capra.

Quando sono arrivato la città mi è apparsa subito ostile. Agli occhi dei miei dieci anni c’era troppo rumore e troppa gente nelle vie per le mie abitudini di beduino solitario. Mentre imparavo a riconoscere le vie, guardavo in alto per vedere fino dove arrivavano quelle costruzioni a più piani tirate su con mattoni di fango impastato con la paglia secca che si trovava in abbondanza, perché con il clima arido non esisteva la bassa vegetazione di altri posti dell’Africa.

L’erba si ostinava a provare a crescere innaffiata dalla poca umidità notturna. Appena i primi raggi infuocati dal sole la colpivano, abbandonava ogni speranza di vita. Era una battaglia continua tra la vita e la morte di queste rade pianticelle. Nessuno degli abitanti di Djenne si rendeva conto di come i germogli dell’erba soffrissero prima di abbandonarsi al niente. Anzi erano contenti di trovare erba secca in quantità. Poi attingevano l’acqua sporca da pozzi scavati in profondità e con le mani formavano dei mattoni informi.

MI i trovavo bene tra le alte dune di sabbia, che il vento trasformava continuamente. Erano come vallate e colline, e dalle sommità, vedevo tutto quello che mi circondava, fino al limitare del tramonto. Invece a Djenne per vedere l’orizzonte dovevo andare ai limiti delle costruzioni.  Vivendoci, l’unico panorama che mi si presentava era quello del palazzotto dirimpetto, dal monotono colore grigio che avevano assunto i mattoni seccati dal sole.

Nulla mi attirava, ma dovevo restarci per studiare e per non scontentare i miei genitori. Per me le strade erano come sentieri senza che qualche segno di vita che mi interessasse. Nel deserto, con l’insegnamento dei vecchi della tribù, avevo imparato a vedere anche segni impercettibili per altri. Riuscivo a capire quale animale aveva lasciato quelle tracce, inconfondibili quelle della vipera cornuta o dei solitari scorpioni.

 Nella strada dove vivo riesco solo a ricordare il modello e la targa delle poche auto sgangherate che circolano seguite da puzzolenti scie dei fumi di scarico dei motori. Tutti di corsa per andare da una parte del mondo già invaso da altri.

Quando con la carovana andavo per le vie del deserto ignorate dalle mappe, a volte acceleravo il passo e andavo più avanti del primo dromedario. Il capo carovana sorrideva, mi raggiungeva e con voce calma, come i suoi passi, mi spiegava la filosofia del percorrere il deserto: «Inutile che tu corra per giungere la prossima oasi. Arrivi sudato, hai bisogno di bere molto, e di riposare a lungo. Io arrivo dopo di te, però sono meno stanco, e non ho bisogno di grandi quantità di acqua. Dopo poco tempo sono pronto a ripartire, mentre tu sei ancora sdraiato all’ombra delle palme per riprendere le forze».

Nella città nessuno sa o immagina la saggezza dei vecchi Tuareg, che hanno sempre percorso la loro vita con lenta pacatezza, con la compagnia del fedele dromedario che chiedeva poco per sopravvivere. I cittadini sono sempre pronti a litigare con persone sconosciute, per motivi assurdi.

Nel deserto non si litiga per cose sciocche. Quando ero in carovana, l’unico essere vivente veramente vicino a me era il lento dromedario, che con sguardi distratti seguiva le mie lamentele senza senso. Nelle lunghe ore dei viaggi con i piedi nella sabbia, la mente tornava alla voce della madre, quando mentre si occupava dei miseri lavori sotto la tenda, con dolce tono rammentava a voce alta, per farci imparare le nostre poesie che si tramandavano da sempre oralmente.

“Io non ho paura della morte,
non temo la vita.
Niente mi turba, tranne piccole farfalle
svanite nel loro volo d’amore.

Mi folgora il volteggio in cielo
delle aquile all’ultimo respiro.
mentre il sole calante arrossa
i miei orizzonti.

Di scritti e di parole
io non conosco l’ombra,
perché mia madre non m’ha insegnato altro
che interpretare l’incresparsi della sabbia
dove scompaiono le tracce di ogni vita passata

che rinasce al nuovo soffio del vento”

A voce bassa, le ripetevo a me stesso e al mio fedele compagno di viaggio fino all’imbrunire, mentre il sole lambiva l’ultima duna all’orizzonte.

A Djenne la notte fonda non segue il lento arrivo del buio. Appena le prime ombre si stagliano tra le case, le lampade cancellano quelle impalpabili immagini. Non riesco nemmeno a vedere bene qualche stella, sembrano così pallide e aride nel parlare con la mia mente, che ci rinuncio quasi subito. Quando invece nel deserto la luce solare scompariva quasi del tutto, da sempre la sabbia delle dune veniva illuminata dalla luce delle stelle. Steso su una pelle di pecora, le guardavo e le riconoscevo una ad una; amiche da una vita. Si muovevano da Est a Ovest, e quasi rincorrendosi, ne arrivavano sempre di nuove… a migliaia. Ogni stella con il suo colore, con il suo modo di lampeggiare con il suo messaggio segreto. E da una parte la luna stava a spiare con pudore l’effetto che facevano ai solitari Tuareg che tardavano a prendere sonno continuando a parlare con le distanti amiche nel cielo terso.

Spesso quando incontro persone in qualche locale, mi guardano per i segni blu che ho sul volto. Sono dovuti al turbante dello stesso colore che portavo con la mia tribù. Per questo siamo conosciuti come “Uomini blu” e noi andiamo fieri di questa distinzione. Siamo anche conosciuti come “Tuareg” che nella nostra lingua vuol dire uomini liberi.

La cosa che mi manca di più? La libertà di camminare nella sabbia con il “Ghibli” che mi sferza con il suo alito bollente. È la vita che noi nomadi portiamo avanti da secoli. A volte tra le dune vedevo delle colonne di fuoristrada colme di turisti vocianti che le scendevano e le risalivano. Si fermavano, scendevano dalle auto, si mettevano in posa con alle spalle le dune e scattavano foto su foto. Ma di cosa? Sabbia… quella che non sapevano riconoscere tra le enormi varietà dei granelli che la compongono, lavorati dal vento che da millenni li fa rotolare e cambiare di forma. Poi felici di tornare nelle loro terre e dire agli amici “Ho visto il deserto”.  Ma del deserto non avevano visto nulla; non la bellezza dei granelli di sabbia dorata, non la sensazione di farla scorrere tra le dita, non hanno sentito il calore bollente che emana nel pieno della giornata, non hanno notato nulla dei segreti che nasconde. Non hanno avuto il piacere di aspettare l’alba distesi su una coperta ad osservare il cielo stellato, provare a contare gli astri lontani, sentirsi piccoli come un granello di rena al cospetto di quanto ci circonda.  Il loro passaggio è segnato dalle orme delle ruote, che quasi subito il vento cancella. Niente altro. Non lasciano segno della loro presenza in luoghi meravigliosi come questo. Non sentono la grandezza della natura, non indovinano l’immensità di questa distesa di sabbia, non provano a vivere anche se per poco, la nostra vita di nomadi. E il vento, alleato della sabbia si vendica. Una folata rovente, un piccolo turbine che si alza improvvisamente e tutto torna come prima.

Sono quindici anni che vivo tra la gente del Mali. Ho studiato, ho lavorato, ma la mia terra mi manca ogni giorno sempre di più. Nella valigia, quando sono partito, di nascosto ho messo un turbante blu e una tunica azzurra. Li guardo sempre più spesso, e l’idea di poterli rimettere mi tormenta quasi ogni giorno.

È una mattina normale per molti di quelli che mi circondano, ma non per me! È “quella” mattina… quella che ho sognato da anni e anni: andarmene via da questa vita.

La abbandono senza rimpianti. Non porto nulla con me nemmeno la speranza di tornare tra qualche anno. Questo tipo di vita non mi è mai appartenuto. Mi sono sempre sentito uno straniero.

Al limitare della città, lascio per terra i pochi abiti che non ho mai sentito miei.  Metto la tunica azzurra e il turbante blu. Me li sistemo accuratamente come mi hanno insegnato a fare, per proteggermi dal sole e dal vento, un profondo respiro per sentire in anticipo l’odore della mia gente, della mia vita passata.

Mi lascio alle spalle la tristezza, e mi avvio con passo lento verso le mie origini.

La foto di copertina è stata realizzata dai grafici di a.l.a.

Mario Traversi

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