Le foto sono di Paolo Baroni, la Fortezza Vecchia,
di Elisabetta Lorini. il monumento dei 4 Mori
e di Paolo Andriani, il lungomare di Bari.
“W la topa” leggevo sul vagone di un treno fermo nella stazione di Bari.
“Viene sicuramente da Livorno – ho pensato – da noi questa parola non esiste e ancora oggi, dopo decenni vissuti a Livorno, non mi richiama alla mente visioni erotiche o proibite. Quando in piazza Grande ho sentito per la prima volta una signora dire al suo bambino «Guarda i piccioni», ho provato un senso di imbarazzo e incredulità, visto che per noi piccione è l’equivalente di topa. Inveire urlando: “U piccion’ d mammete” – è un’offesa mortale. Perciò da noi si chiamano colombi.
Altra espressione livornese colorita: “Il budello di tu ma’” (rinforzato da cane talvolta), a volte espressa senza una reale volontà di offendere. Per me non significa niente, anche se so bene che non trattasi di complimento aggraziato, ma rivolgersi a Bari in una contesa verbale con: “chedda zocchele de mammete” può provocare reazioni incontrollate e violente. Riflettendo, mi sembra che i nostri improperi siano più grevi, ma forse solo perché fanno parte del mio vissuto.
Altro esempio di gergo locale: gli alunni a scuola chiedevano giustizia: «Prof. offendano le mamme!». E io: «Perché, quante ne hai?».
Dunque, siamo tutti italiani, ma… ogni luogo ha le sue tradizioni, i suoi modi di dire, le sue espressioni caratteristiche, come si sa.
Appena giunta a Livorno mi sono sentita molto a disagio, non solo per la fraseologia e i vocaboli diversi, ma per la musicalità stessa della lingua. Quando sono tornata a Bari dopo un po’ di tempo, ho finalmente capito perché ci prendono in giro per la nostra cadenza, di cui non ho avuto consapevolezza fintanto che non mi sono immersa in una realtà completamente nuova. Era vero dunque, le a tendevano alla e, e le e alla o, pronunciate chiuse.
Parole italiane ma… con significato diverso che solo una lunga consuetudine consente di fare proprie. Ad esempio: “mi dà noia, per noi è: mi dà fastidio. C’è riscontro, per noi, c’è corrente.” L’aggettivo ignorante lo utilizziamo nella sua prima accezione, di persona che non sa, non ha studiato. A Livorno indica essenzialmente maleducato. Difficile tradurre: fa’ vaini con una espressione simile, o mettiti a ceccia, tanto per accennare soltanto alle infinite varianti proprie del posto in cui si vive. “La tal signora è tornata in via…” Ma perché, dov’era andata? C’era anche prima? Non capivo.
E che dire dell’espressione: Dio campanile che mi colpì moltissimo la prima volta che la sentii appena arrivata a Livorno. Era una bestemmia? In ogni caso una concisa e fantasiosa manifestazione di un sentimento, la rabbia forse o la sorpresa per qualcosa, fantastici livornesi!
Penso che il dialetto sia molto più ricco di espressioni colorite intraducibili in italiano corrente. Bisogna esserci nati, vale per tutti i dialetti e i vernacoli del mondo ovviamente. Prendiamo ad esempio la parola ndrapcuà, significa inciampare in dialetto barese ma non c’è già il senso dell’inciampo nelle prime sillabe: ndrà?
Di fronte a casa mia abitava una signora siciliana che parlava fluidamente siculo – livornese. Era assolutamente adorabile, mi incantavo ad ascoltare la sicurezza e la grazia con cui mescolava terra natia e terra acquisita. Io invece non ho parlato per i primi due anni, vuoi per il cambiamento di ambiente, linguaggio, dello shock del matrimonio. “N’avè paura – mi dicono i miei figli (nati a Livorno, si sentono livornesi a pieno titolo) – poi ti sei rifatta alla grande!”
Giunti a Livorno dopo le nozze, il mio defunto marito (che Dio l’abbia in pace) dopo il suo primo giorno di lavoro mi disse: «Ma lo sai cosa mi hanno chiesto in ufficio?». «Cosa?». «Mi hanno chiesto com’è!». Ma sul serio si poteva fare una domanda così intima e imbarazzante? – pensando noi a tutt’altro significato! Buffo misunderstanding!
Dietro le parole le persone esprimono il sentire e la storia di un popolo. Recatami da una signora per fare delle punture, dopo avermi invitata a mettermi a ceccia, raccontò con grande disinvoltura (era la prima volta che mi vedeva): «Quando mi sono sposata, il mi’ marito… sette volte al giorno! Sette volte! Mi toccò andare dal ginecologo che mi disse: “Suo marito è una bestia!”» Ero allibita che mi parlasse di cose così riservate, nemmeno fra sorelle parliamo di abitudini sessuali, ma è la schiettezza e la disinvoltura del popolo livornese che ora mi fa sorridere e che mi piace molto.
Anche l’irriverenza e lo scarso timore reverenziale mi colpirono, il sentirsi liberi di dire quello che si pensa senza considerare lo status sociale o i titoli di qualcuno. Suonava di grande libertà, mentre a Bari non so se sia ancora così, l’essere figlio di…, essere avvocato, giudice, dottore, ecc., incuteva immediata deferenza e rispetto a prescindere.
“E sai ‘osa? Sei senz’orologio!”.
«Come senza orologio! Non lo vedi? L’ho comprato ieri!», obiettai un po’ stizzita al mio amico Renzo che aveva fatto quell’osservazione.
Replicò ridendo: «Non hai ancora imparato i modi di dire livornesi? Si dice così per rilevare quanto una cosa posseduta sia bella e forse anche appariscente! Es: sei senza macchina o sei senza ‘asa e così via! È chiaro ora?».
Sì, era chiaro, avevo ancora tanto da imparare!
Come quella volta che un mio collega mi disse commentando qualcosa che non ricordo più: «Fa’ vaini!».
Fa’ vaini? Lo guardai con un punto di domanda stampato sul viso, al che lui esclamò bonariamente: «Ah, dimenticavo, sei della terronia! (il punto era diventato esclamativo!) prima di tutto vaini vuol dire soldi, quattrini, l’espressione significa che una tal cosa non serve a molto o è inutile».
Inteso!!
E veniamo al dé!
Con tutte le sue infinite sfumature, a significare sconforto, sollecitazione, ammirazione, sorpresa, contrarietà, cambiando significato a seconda della situazione, dell’intonazione e dell’intenzione che il parlante vuole dargli. Il “dé ma dé” indica sicuramente mancata approvazione di qualcosa o rimprovero. In barese corrisponde al “mè” con gli stessi identici significati del “dé!” Il più buffo e più utilizzato è: Mé alla mamma mé!” inteso coma sollecitazione ai figlioli perché facciano quello che chiede la mamma. I figlioli dovrebbero commuoversi e convincersi ad eseguire la richiesta perché la mamma utilizza un tono accorato e lamentoso!
Fra Bari e Livorno c’è sempre stato un filo diretto, forse perché entrambe città di mare anche se viene vissuto in modo molto diverso. Quando si tardava ad un appuntamento si chiedeva ironicamente: “Da dove vieni? Da Livorno?” per indicare una improbabile destinazione lontana, ora non ha più senso in un’ora di aereo ci siamo.
Quando nonna Filomena seppe che mi sarei trasferita a Livorno, intonò: «Io voglio ritornare alla mi’ Livorno dove tutte le ragazze me la danno», poi si interruppe e maliziosamente mi chiese: «Che cosa hai capito?». Cosa avevo capito? Non ne ero sicura. E continuava: «… prima la buona sera e poi il buongiorno!». Spiegava: «Mio fratello ha fatto il soldato di mare a Livorno».
Adoro l’anima popolare e anche se i primi anni sono stati molto difficili, mi sento ricca e felice di appartenere ormai a due culture diverse che posso comprendere nei loro pregi e nei loro difetti.
Milena Vox
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