Qualche anno fa (nel 2006 in Francia, nel 2007 in Italia) uscì un’opera letteraria di enorme successo: L’eleganza del riccio, di Muriel Barbery.
A un certo punto, Renée, una delle protagoniste del libro, parla della sua passione per l’arte olandese, in particolare per le nature morte, tanto che, senza un attimo di esitazione, cederebbe tutto il Quattrocento italiano per le opere di Pieter Claesz o Osias Beert.
In effetti, tra arte fiamminga – olandese, che si afferma nel primo Quattrocento, e arte italiana esiste una contrapposizione che da secoli infiamma il gusto europeo, con tifosi di una parte oppure dell’altra: per esempio, oltre alla Renée appena nominata, anche Michelangelo e Vasari hanno espresso il loro parere.
Eppure, le due correnti hanno sempre incrociato, con incredibili mix stilistici, i loro percorsi.
Inizialmente sarà l’arte italiana, già nella prima metà del secolo XV, a inglobare elementi fiamminghi.
Brani di natura morta, ritratti con soggetti posti di tre quarti, paesaggi con edifici nordici, e soprattutto la tecnica della pittura a olio, che sarà presto preferita alla tempera.
Ma anche l’arte fiamminga assumerà alcuni aspetti di quella italiana, come l’attenzione alla resa prospettica o l’introduzione di elementi classici, quali colonne e archi a tutto sesto.
Nel Cinquecento, poi, l’arte fiamminga aderirà con convinzione all’arte manierista di impostazione italiana. Per non parlare degli sviluppi seicenteschi, con grande affermazione dell’arte di Rubens in Italia, tanto da influenzare enormemente l’arte barocca, e di quella di Caravaggio in Olanda.
Questi scambi reciproci non possono stupire: da un lato Firenze a partire dal tardo Duecento (Cimabue, Giotto…) e Roma dal Cinquecento (Raffaello, Michelangelo, e poi Bernini, ecc.) erano considerate in tutta Europa come capitali delle arti.
Molti artisti nordici si interessarono così alla produzione artistica italiana, tanto da organizzare lunghi viaggi per osservare di persona le opere più famose.
D’altro canto, i committenti italiani erano molto interessati alle opere fiamminghe, che arricchivano le collezioni degli Este a Ferrara, dei Montefeltro a Urbino, degli Angioini e poi degli Aragonesi a Napoli, dei Medici a Firenze, e così via.
Alcuni artisti italiani andarono a visitare le Fiandre: assai noto il caso di Antonello da Messina, che fu tra i primi ad applicare la tecnica della pittura a olio, appresa nel Nord Europa, e i ritratti con posa di tre quarti che fu preferita a quella tradizionale italiana con il soggetto raffigurato di profilo.
Vari pittori fiamminghi vissero lungamente in Italia: Giusto da Gand fu per esempio a Urbino.
Numerosissimi, d’altronde, erano gli italiani, soprattutto fiorentini, residenti nelle Fiandre per motivi commerciali. Questo spiega il proliferare di ritratti realizzati da artisti fiamminghi con soggetti toscani e italiani: il dipinto più famoso è il Ritratto dei coniugi Arnolfini, oggi a Londra, dipinto nel 1434 da Van Eyck (gli Arnolfini lavoravano presso la filiale del Banco Medici di Bruges), ma gli esempi sono innumerevoli.
L’interesse per l’arte fiamminga spinse quindi molti artisti italiani a inserire elementi nordici nelle loro opere: un processo ben visibile già in Beato Angelico nella prima metà del XV secolo, e, poco più tardi, in Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Piero della Francesca, e così via.
Ma perché committenti e artisti italiani erano così attratti dalle opere di artisti fiamminghi? Cosa comunicavano quei dipinti? Sia in Italia sia nelle Fiandre l’obiettivo degli artisti, all’inizio del Quattrocento, era di provare a raffigurare la realtà superando le convenzioni medievali.
A Firenze e nel resto d’Italia, a partire da Masaccio, tale obiettivo sarà raggiunto con le regole della prospettiva scientifica: la definizione dello spazio si basa così su presupposti razionali, geometrici, matematici. L’approccio è quindi intellettuale e teorico.
Viceversa nelle Fiandre lo spazio è reso tramite la diffusione degli effetti di luce sui diversi materiali: la luce avvolge gli oggetti, si riflette, dà sostanza e consistenza, definisce spazio e profondità.
Si tratta di un percorso empirico, con l’artista che riproduce fedelmente ciò che vede, senza applicare teorie astratte.
Non c’è dunque sistematizzazione concettuale ma un’ostinata applicazione di buone pratiche di atelier.
Gli artisti fiamminghi e quelli italiani avevano in effetti obiettivi simili, ma li raggiungevano con mezzi diversi.
Michelangelo e gran parte della critica fino al Novecento consideravano l’approccio nordico “primitivo”, non concettuale e dunque inferiore. Renée, protagonista del libro del 2006, preferisce la visione nordica a quella italiana, forse percependola come più immediata e suggestiva.
Storicamente, i due approcci non sono così separabili: si incrociarono ripetutamente e definirono una sensibilità comune, rivoluzionaria rispetto alla tradizione medievale.
Era una nuova epoca, che siamo abituati a chiamare Rinascimento.
Matteo Massarelli
L’immagine in copertina è l’Annunciazione del Beato Angelico, convento di San Marco di Firenze.
(Fra Angelico , CC BY 2.0, via Wikimedia Commons)
Tutte le immagini di questo articolo sono di pubblico dominio.
Per commentare
Sii il primo a commentare