Noi livornesi abbiamo la fama, forse non del tutto immeritata, di essere chiassosi, dissacranti, smargiassi, esibizionisti, protagonisti, istrioni, gigioni, megalomani, ma anche ironici, sarcastici, barzellettieri emeriti.
I più grandi raccontatori di barzellette della storia italica, vale a dire Walter Chiari e Gino Bramieri, hanno sempre pubblicamente riconosciuto nella nostra città e, soprattutto nel suo porto, il principale serbatoio delle loro performance. E poi ci sono episodi di risonanza nazionale!
Come non ricordare la beffa delle false teste di Modigliani o le bandane di San Siro, quando i moltissimi tifosi livornesi si presentarono alla loro prima partita di serie A, contro il Milan (bei tempi !) per sbeffeggiare Berlusconi che si era trapiantato da poco i capelli che sembravano di plastica e con una bandana nascondeva i postumi, ancora freschi, dell’intervento.
Poi il Vernacoliere, il primo giornale d’Italia, nel campo della satira popolare, le cui locandine, spesso di pesantezza inaudita, sono sempre state tollerate e apprezzate. Ricordo di aver visto di persona alla stazione milanese di Porta Garibaldi, nel pieno della City meneghina, un’intera parete tappezzata con le locandine del Vernacoliere. La gente si fermava a leggerle e… non si scandalizzava, al contrario ci si divertiva, perché ai livornesi si perdona anche la… volgarità!
Fino a qualche anno fa era consuetudine, al cinema o a teatro, far parlare i livornesi come i fiorentini, che come è noto usano la “gorgia toscana”, ovvero la pronuncia della C intervocalica, diversamente da noi. Loro la aspirano, noi la elidiamo, loro dicono la ‘hampagna, noi la ‘ampagna.
A rimettere le cose a posto ci ha pensato Paolo Virzì con i suoi film capolavoro. Lui ha fatto di più, nel film N Napoleone, ha fatto parlare in livornese gli elbani che notoriamente parlano un loro vernacolo assai diverso dal nostro.
Tutto bene insomma, e invece no, c’è anche chi non ci sopporta e non tollera il nostro essere sopra le righe, urloni, violenti, prepotenti, attaccabrighe. Insomma i livornesi o si adorano o si odiano.
Ma perché noi livornesi siamo così particolari?
Perché è particolare la città, è particolare la sua storia, molto diversa da quella delle altre città. In genere una città diventa tale nel corso dei secoli attraverso sviluppi successivi.
Livorno no, Livorno nasce subito grande città, per il forte volere della famiglia Medici.
La città è interamente funzionale al porto, è neutrale e affrancata da dazi doganali, concepita quindi per funzionare come polo di scambio tra i mercati del Mediterraneo orientale e quelli nordeuropei. Ferdinando I dei Medici, dopo aver costruito porto e città, si pose il problema di far funzionare il sistema, dopo aver fatto Livorno doveva fare i livornesi. Aveva bisogno di gente esperta di commerci marittimi e dei rappresentanti delle grandi compagnie di navigazione composti per la maggior parte da ebrei, protestanti o cristiani d’oriente, che in Italia, essendo in piena controriforma, rischiavano il rogo. Ferdinando però garantì loro accoglienza e protezione, facoltà di esercitare liberamente, oltre la loro professione, la loro fede religiosa, e concesse benefici fiscali ed economici attraverso le famose “leggi livornine”. Costoro accorsero in massa e formarono la prima popolazione livornese, una popolazione multireligiosa, multi etnica e multiculturale.
Grazie a questa genialata granducale, Livorno sarà per due secoli il primo porto commerciale del Mediterraneo e centro di scambi sociali e culturali. Una città, dove non agiva il Sant’uffizio con la sua rigida censura. Livorno costituiva un’enclave di tolleranza e di libertà in un’Italia, caratterizzata da assolutismo principesco e integralismo religioso.
Quindi i primi livornesi, i nostri antenati, sono questi, personaggi provenienti da ogni parte dell’Europa e del Medioriente, “i mercanti di qualsivoglia nazione” a cui Ferdinando aveva rivolto il suo invito. E non come spesso sento dire, anche da voci autorevoli, assassini, ladri e puttane. Le Livornine non erano rivolte ad assassini, ladri e puttane, perché si specificava che i reati, commessi nei paesi di origine, venivano perdonati, ma non dovevano essere infamanti come “l’ammazzare o il fabbricar moneta”.
I Medici, al contrario dei Bischeri, altra nobile famiglia fiorentina, meno abile negli affari, tant’è che il loro nome è divenuto sinonimo di sprovveduti, i Medici, dicevo, erano molto oculati nei loro affari, figuriamoci se volevano affidare quello che era il loro principale investimento ad assassini, ladri e puttane.
Quindi i nostri antenati non sono assassini, ladri e puttane, ma al contrario persone abili nel loro lavoro, coerenti con la loro fede e soprattutto spiriti liberi.
Nel Settecento Cesare Beccaria, il più grande illuminista italiano, venne a Livorno per pubblicare il suo fondamentale trattato Dei delitti e delle pene che servirà d’ispirazione al Granduca Pietro Leopoldo di Lorena per la sua fondamentale riforma del diritto penale che aboliva tortura e pena di morte.
E qui la storia ci fornisce una chiave di lettura per spiegare il livornese, geniale, ironico e fantasioso, ma il livornese urlone violento e attaccabrighe? Da dove viene fuori? Che giustificazione ne dà la storia?
Qui il discorso è un po’ più complicato e rende necessario il ricorso al manuale di storia da aprire alle pagine che riguardano la Rivoluzione Francese, evento che cambia profondamente la storia del nostro continente.
Siamo alla fine del ‘700, l’Europa è dominata dall’aristocrazia che ne ha il controllo politico ed economico. Con la Rivoluzione la borghesia abbatte l’aristocrazia i regnanti, però, rimangono al loro posto ma devono confrontarsi con i parlamenti elettivi. I moderati e i conservatori rappresenteranno la destra mentre la sinistra con i progressisti e gli innovatori rappresenterà la sinistra. Le città portuali, per la loro natura, essendo più aperte al mondo, recepiscono meglio i fermenti, si schierano dalla parte dei contestatori e divengono teatro dei principali moti rivoluzionari, che tendevano appunto alla Costituzione e alla fine dell’assolutismo. I regimi ovviamente oppongono resistenza e non esitano a schierare le loro polizie i loro eserciti per reprimere questi moti, anche in modo violento, con repressioni, carcerazioni e condanne a morte.
Livorno fa eccezione perché la Toscana non è uno stato di polizia, Il Granduca non ce l’ha una milizia mercenaria disposta a sparare sui rivoltosi e poi in Toscana solo Livorno è ribelle, perché tutto il resto della Regione, tutto sommato, con il Granduca ci sta abbastanza bene. Quindi le intemperanze livornesi, che cominciano a partire dai primi moti risorgimentali non vengono represse. Per quasi trent’anni i livornesi sono perennemente in piazza, di continuo, e il Granduca non è in grado di tenerli a bada.
È normale quindi che in città si acquisisca una sorta di delirio di onnipotenza. Siamo forti, siamo invincibili, nessuno ci può fermare. Invece lo faranno gli austriaci, quelli veri, quelli Imperiali, quelli di Cecco Beppe. Verranno in forze con fanteria, cavalleria e cannoni e finalmente loro riusciranno a mettere giudizio a questi livornesi ribelli.
Però il senso della ribellione rimane e si esprime per le strade per le piazze, con risse e scazzottate che poi finiscono sempre a tarallucci e vino, come pure nella politica. I livornesi saranno sempre contro, contro i Savoia, i repubblicani, gli anarchici e i massoni, lo saranno poi contro il fascismo, e infine, nell’ultimo dopoguerra, contro lo strapotere democristiano.
È aperto il dibattito se questi atteggiamenti siano stati utili o dannosi.
E ai giorni nostri come siamo messi? Qui non è più storia è cronaca, ognuno di noi l’ha vissuta, la sta vivendo, e quindi se ne farà o se ne sarà fatta una propria idea, però sempre livornesi siamo.
Tutte le foto sono prese dall’archivio di A.LA.
Mario Cusmai