In queste righe vorrei parlare di Archeologia Antica. Chi legge sarà portato a credere che io sia un archeologo, magari un esperto di Storia o uno studioso del ramo.
Niente di tutto questo.
Il fatto è che ho scritto un romanzo, recentemente pubblicato da ALA Libri, che racconta di una scoperta archeologica che avrebbe potuto avere un’importante risonanza e, invece, non l’ha avuta.
La storia si svolge a Gerusalemme, nel 1941, con la Palestina sotto il governo inglese. Si stavano ponendo i presupposti per il conflitto arabo-israeliano che, come sappiamo, a più di ottant’anni di distanza non ha trovato ancora alcuna soluzione.
Due grandi studiosi dell’Archeologia ebrea, Eleazar Lipa Sukenik e il suo assistente Nahman Avigad, conducono una campagna di scavi nella Valle del Cedron, detta anche Valle di Josafat, nel versante est della Città Santa. I due si imbattono in un luogo di sepoltura, scavato nella roccia, che appare inviolato da millenni. Il contenuto della tomba, undici antichi ossari e poche suppellettili di scarso valore, viene minuziosamente catalogato.
Prima stranezza: per molti anni il ritrovamento non viene reso pubblico. Soltanto nel 1962 Avigad decide di pubblicare un articolo sulla principale rivista di archeologia ebraica. Sukenik, nel frattempo, era morto nel 1953. Secondo l’articolo, la tomba e il materiale in essa contenuto sono datati nel primo secolo d.C., prima della distruzione di Gerusalemme operata dai Romani nel 70 d.C.
Seconda stranezza: la tomba era inviolata per cui gli 11 ossari presenti nel sepolcro avrebbero dovuto contenere resti umani. Tuttavia, Avigad non ne fa menzione nel suo rapporto.
Perché?
Gli ossari riportavano incisioni con i nomi dei defunti, presumibilmente appartenenti alla stessa famiglia oppure a uno stesso gruppo etnico. Le iscrizioni sono quasi tutte in lingua greca e i nomi decifrati sono poco diffusi in Giudea, ma più comuni tra le popolazioni ebree originarie dell’Africa del Nord, in particolare tra gli abitanti della Cirenaica, oggi territorio libico. Non era difficile incontrare, nella Giudea del primo secolo, famiglie originarie della Cirenaica che vivevano stabilmente a Gerusalemme o nei suoi dintorni. Due ossari riportano il nome “Simone”: uno reca l’iscrizione “Sara (figlia) di Simone da Tolemaide”, località della Cirenaica, l’altro “Alessandro (figlio) di Simone”.
Fermiamo un momento il racconto della scoperta della tomba e chiediamoci: ci dice qualcosa il nome “Simone il Cireneo, padre di Alessandro e Rufo”?
Sembrerebbe di sì: gli evangelisti cristiani Matteo e Luca indicano, per l’appunto, il personaggio di Simone come colui che aiutò Gesù a portare la croce fino al luogo della Crocifissione.
Terza stranezza: se immaginiamo di attribuire a Simone e alla sua famiglia la tomba della valle del Cedron, come mai nel sepolcro non c’è traccia degli ossari di Simone stesso e di suo figlio Rufo? Perché i due studiosi non hanno reso pubblica la scoperta del sepolcro? Perché Avigad ha aspettato il 1962 per farlo, nove anni dopo la morte del suo maestro e ben 21 anni dopo la scoperta?
Probabilmente la tomba è stata considerata di minore importanza. Si può anche immaginare che gli studiosi abbiano volutamente taciuto su un possibile collegamento della tomba con i Vangeli cristiani per motivi di opportunità.
Questa tesi costituisce la mia personale ipotesi che, beninteso, è quella di un creatore di storie e certo non quella di un addetto ai lavori.
Oggi i protagonisti di questa storia non sono più in vita per cui, con tutta probabilità, la vicenda manterrà per sempre le sue domande e le sue stranezze. Non sappiamo neanche, a quanto mi risulta, che fine abbia fatto il sepolcro. Uno studioso americano, che per ultimo si è occupato della tomba dei Cirenei all’inizio degli anni duemila, ipotizza con un pizzico di ironia che ci abbiano costruito sopra un bel condominio.
Per tutte le altre domande, quelle cioè sulla effettiva attribuzione della tomba al Cireneo Simone, mi rimetto alla Storia, quella con la S maiuscola, e alle piccole storie di uomini, come quelle che ho voluto raccontare nel mio romanzo: la storia di una famiglia vissuta nel primo secolo, quella di due studiosi ebrei contemporanei e, infine, quella di una tomba scoperta nel 1941. Una cosa, per certo, ho imparato dallo studio di questa vicenda: gli archeologi di tutto il mondo, come ho scritto nella dedica, hanno un compito arduo, tanto importante quanto difficile da assolvere: raccontare il nostro passato con lo scopo di capire il presente e immaginare il futuro.
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