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Un western di indiani e cowboy

PABlog Tema 7: Le parole straniere nella lingua italiana: ricchezza o impoverimento?

La mia professoressa di italiano e latino delle scuole medie era contraria all’uso di parole straniere nello scritto di italiano. Mi ricordo che in un compito in classe che chiedeva come avessi trascorso la domenica, io, che ero stato al cinema a vedere un western, un assalto a una carovana di coloni da parte di un gruppo di Apache, scrissi “Ho visto un film western di indiani e cowboy”.
Naturalmente nessuna di quelle quattro parole per la prof era corretta: sottolineò con la matita rossa i termini film e western, marcò con la matita blu (errore grave) indiani ed evidenziò cowboy con due sottolineature blu (errore molto grave).

Un bambino di undici anni non è in grado di contestare una professoressa di italiano e latino, o meglio, sarebbe meglio non lo facesse. Io lo feci. Con gli occhi fissi sul sei meno meno che riduceva a un numero “irreale” il giudizio del mio elaborato, alzai la mano e, ricevuto il permesso di parlare, chiesi: «Scusi… signorina professoressa, – la tipa ci teneva molto al suo nubilato, anche se aveva superato gli anta, – che cosa avrei dovuto scrivere, al posto di “film, “western”, “indiani” e cowboy”?».

Fui investito da uno sguardo di commiserazione, nemmeno avessi chiesto se “vado a casa” si scrive con l’acca, quindi, dondolando la testa, lei rispose: «Baroni, per misericordia divina, evita tutte quelle parole straniere! Nel caso specifico puoi scrivere “una pellicola… ambientata… nell’ovest americano…  o nella frontiera” – poi, dopo una breve pausa di riflessione, aggiunse – e niente cowboy… scrivi… che ne so vaccai, mandriani… al limite addirittura “butteri” è preferibile.

La classe si divise in due partiti. I coraggiosi risero, i tirapiedi annuirono.

Io corressi da solo l’ultima parola: «Gli indiani vivono in India, lo so, avrei dovuto scrivere “… pellirosse”».

La prof interruppe il mio atto di contrizione: «Certo, i nativi americani sono pellirosse, o pellerossa, amerindi e se vuoi chiamarli indiani come minimo devi aggiungere d’America».

Stavo per controbattere che, trattandosi di un western forse era superfluo precisare che erano d’America, quando dal primo banco il cocco della prof alzò la mano e, senza nemmeno attendere il permesso di parlare, aggiunse: «Pellirosse fu “coniato” perché quei selvaggi si dipingevano il volto e il corpo di rosso».

Fulminai con uno sguardo quel ruffiano senza ritegno, poi, rivolto alla prof, riassunsi con orgoglio: «Insomma… una pellicola ambientata nella frontiera americana… di pellirosse contro… coloni». Quindi, come Galileo davanti all’Inquisizione, sibilai sottovoce: «In quel film non c’erano cowboy, ma nemmeno mandriani, o vaccai e tanto meno butteri. E gli indiani non erano affatto selvaggi».

Fu così che il sei meno meno, diventò un sei pieno.

Oggi, quella prof sarebbe alla neuro. La bella lingua di Dante e Manzoni secondo lei verrebbe ridicolizzata, umiliata da espressioni straniere pronunciate male, usate per puro snobismo, per distinguersi, oppure per notificare l’appartenenza a un gruppo. Ma nemmeno oggi sarei d’accordo con lei. L’uso di parole non italiane talvolta può avere come obiettivo quello di mostrare di fare parte di una certa élite socioculturale, tuttavia è incontestabile che l’italiano, come tutte le lingue vive, sia in costante evoluzione: che si stia trasformando per il contatto con altri popoli, per colmare lacune lessicali, per trovare termini più precisi, più adatti alla tecnologia, alle tendenze culturali e scientifiche. L’’adozione di termini da diverse lingue, se usato con buonsenso, favorisce la comprensione.

Chi mai oggi eviterebbe di usare parole come computer, smartphone, e-mail, shampoo, wi-fi, scanner, streaming, blog a beneficio degli italianissimi, elaboratore, telefono intelligente, lavaggio dei capelli, connessione senza fili, digitalizzatore, flusso di dati, diario in rete? Ciò che è breve, riconoscibile e comunemente usato è italiano a tutti gli effetti. Con buona pace dei puristi.

D’altro canto, è bene non esagerare. Se sento dire: “Ho avuto un meeting con il mio team in una location esclusiva per un feedback sul nostro brand, immagino la mia vecchia prof che strepiterebbe: «riunione, squadra, luogo dell’evento, riscontro, etichetta!».

Le parole che semplificano, che aiutano a evitare lemmi obsoleti o ridicoli, le espressioni che contribuiscono a rendere la comunicazione più efficiente e moderna vanno accettate, però, per misericordia divina, come direbbe la signorina prof, facciamo attenzione alla pronuncia. Molte parole straniere di uso comune in italiano sono spesso pronunciate male. Latino come fosse inglese: ad esempio media con la i, la parola break storpiata in brèk, performance deturpata dall’accento tonico sulla prima sillaba, fruit che viene detta così come è scritta, mountain bike che diventa móntan, country cauntri, bowling bulin e, anche se tutti pronunciano benissimo pub, incomprensibilmente club viene trasformato in clèb. A proposito di club, voglio chiudere citando un tipo di abbreviazione che mi innervosisce parecchio: la cancellazione del secondo elemento nelle parole inglesi composte, come l’uso di night al posto di night club. Molti sono convinti che in questo tipo di espressioni la seconda parola funzioni da attributo e che possa essere tralasciata per guadagnare tempo e fiato. Purtroppo, in inglese è tutto il contrario e “stasera andiamo al night”, non suona benissimo a un orecchio non proprio nostrano.

Le immagini sono state prodotte dai grafici di ala

Paolo Baroni

Pubblicato inBlogPronti attenti blog

11 commenti

  1. Anna Maria Citi Anna Maria Citi

    Simpaticissimo! 👏👏👏
    Il mio articolo sullo stesso argomento (in elaborazione) è un po’ più serioso ma la posizione mi pare simile.
    La prossima volta tratterò dell’uso di faccine e simili da cui anch’io sono dipendente 🤣
    Anna Maria

  2. Anna Maria Citi Anna Maria Citi

    Simpaticissimo!
    Il mio articolo sullo stesso tema (ci sto lavorando) è un po’ più serioso ma la posizione mi sembra simile

  3. Arturo falaschi Arturo falaschi

    tuttavia è incontestabile che l’italiano, come tutte le lingue vive, sia in costante evoluzione: che si stia trasformando per il contatto con altri popoli, per colmare lacune lessicali, per trovare termini più precisi, più adatti alla tecnologia, alle tendenze culturali e scientifiche.

    Hai proprio ragione: evolvere il linguaggio è renderlo più adatto alla cutura dominante. Cultura che si deve evolvere, nel rispetto del “progresso è bello”, verso il modello culturale “occidentale”, american style (spero averlo scritto bene se no sono out) del libero mercato, del libero sfruttamento, del libero sterminio di popolazioni intere. La lingua internazionale insomma: la lingua di questa internazionale, No, preferisco l’italiano, quello classico. Preferisco le singole lingue dei singoli paesi culturalmente (e non solo) liberi, per ora. Ma provvederemo: insegneremo l’inglese a tutti. Anzi,no, l’americano.

    • Auspichiamo che ogni nazione sia orgogliosa della propria lingua, ogni regione del suo dialetto, ogni città del suo slang (oops mi è scappata una parola anglofona… e anche oops non è nostrana) ogni quartiere dei suoi modi di dire… Proponiamo una lingua per ogni condominio, per non mescolarci con chi è diverso da noi.
      La lingua usata per distinguersi, per non amalgamarsi, per non confondersi con gli altri. Evviva la Torre di Babele! Abbaso la culura dominante. Ma anche il mio e il tuo italiano in fondo è figlio della cultura dominante del Rinascimento dei banchieri, dei poeti venduti a Signorie e potentati.
      Arturo, evolvere. Quanto è bella questa parola. Ha in sé la forza del Progresso e della Conoscenza.

      • Cristina Quartarone Cristina Quartarone

        È una storia che parla di altri tempi,quando il cosiddetto”purismo”della lingua era un valore.Tutte le singole lingue,in realtà,sono il risultato di contatti,dominazioni,guerre,scambi commerciali, culturali,musicali,culinari di vari popoli fra loro.Le singole lingue sono fiumi che trasportano nel loro lento e secolare corso la storia di altri popoli.Con periodi di piena e di magra.Ed è inevitabile che le parole si trasformino,deformino,cambino,che “media” si pronunci “midia”,perché lo abbiamo preso dall’inglese parlato in America,non dal latino,lingua oggi quasi sconosciuta ,dalla quale la maggior parte delle parole (compreso il neutro plurale “media” )e dei costrutti dell’italiano provengono!
        Caro Paolo,il tuo racconto è delizioso e sono d’accordo con te,viva la torre di Babele,ma accettiamola fino in fondo,non cerchiamo ,nel parlare comune almeno,l’esatta pronuncia inglese,perché faremmo un’operazione complementare a quella della tua prof.di italiano e latino che chiamava i cowboys “butteri”. Mentre gli uomini costruivano in Mesopotamia una città ed una torre che volevano altissima,”che toccasse il cielo”(Genesi,11),Dio ritenne il loro progetto “non impossibile” e poiché voleva un solo popolo ed una sola lingua (ideale del monoteismo e del popolo prediletto da Dio ,fondamentale nell”Ebraismo) ,li disperse su tutta la terra e confuse cosi’tutte le lingue in modo che quegli uomini non si capissero più fra loro,per questo la torre non finita fu detta “di Babele”,cioè “della confusione”,dalla radice bll che ha questo significato. Ma forse,se gli operai,magari già appartenenti a popoli diversi ed un po’ integrati,avessero continuato, avrebbero avuto bisogno di altra mano d’opera straniera e altri di popoli si sarebbero aggiunti e,alla fine ,ognuno avrebbe appreso le parole degli altri,storpiandole magari un po’,sbagliando la pronuncia,ed avrebbero costruito qualcosa di enorme e bellissimo che,però,di fronte alla grandezza di Dio, non il il dio dell”Ebraismo ,ma la Mente Creatrice del Tutto,sarebbe stata comunque qualcosa di piccolissimo e la costruzione più importante sarebbe stata,in quel momento,la nuova cultura di scambio che si sarebbe creata in quella cooperazione e la nuova,vitale ,lingua,ricchissima di parole provenienti da tante lingue ,prima sconosciute, allora storpiate,adattate,ma comprensibili

  4. Arturo falaschi Arturo falaschi

    Occorrerebbe una discussione a proposito.
    1) Evolvere non è una bella parola in sé. E se ha un senso, lo ha solo avendo di mira lo scopo dell’evolvere. Civiltà tradizionali e statiche sono state, a mio avviso e non solo mio, ben superiori al nostro sfrenato quanto acefalo progresso.
    E’ chiaro, Cristina, come la lingua dipenda dalla cultura dominante e la cultura dominante dalla lingua; ma, nel caso specifico, tu sei daccordo sulla bontà della (si fa per dire) cultura dominante di matrice capitalistica, mercatistica, devastante? Io no. E se la lingua è manifestazione e conseguenza della cultura dominante, io non sono daccordo sulla surrettizia introduzione di tale lingua. E siccome la lingua anglosassone e la cultura anglosassone hanno prodotto tutti i disastri del passato e del presente, io sono contrario al diffondersi di tale cultura e di tale lingua.
    Il mito della torre di Babele ha anche un significato parallelo: la punizione per la tracotanza dell’uomo nel volersi elevare fino al cielo. Massima colpa, secondo la filosofia dalla quale deriviamo. Colpa di cui i nostri nipoti pagheranno le amare conseguenze.
    Non contaminare le lingue pur sapendo di una loro inevitabile, ma lenta, trasformazione (non evoluzione, Paolo) non significa ostinata stagnazione. Significa avere coscienza dello scopo della trasformazione quando, come nel caso attuale, lo scopo c’è. Significa verificare, nella propria libera coscienza (per quanto possibile) il piano politico che ci sta dietro e, politicamente, respingerlo.
    Rifletti un attimo, mia stimata Cristina: non credi che ci sia un rapporto fra l’inquinamento elettromagnetico e la lingua inglese?
    PS Vivaddio: almeno una volta il blog si anima!

  5. Anna Pagani Anna Pagani

    Siete fantastici anche nella discussione..
    Grazie per il bellissimo articolo.
    Aggiungo:
    Dante scrisse in‘ volgare’ per farsi capire
    qualche numero l’abbiamo preso dagli arabi…
    La contaminazione è necessaria per venirci incontro
    Nella comprensione fra esseri umani o almeno ci si prova

  6. Grazia Chiarini Grazia Chiarini

    Bellissimo racconto, Paolo, che ha anche stimolato tutte queste interessanti riflessioni. In occasione di un incontro per un progetto europeo, mi sono trovata insieme a ragazzi e ragazze che venivano da paesi diversi, Polonia, Spagna, Italia, Svizzera, Romania. Alcuni di loro facevano parte di un’associazione irlandese che accoglieva persone provenienti da Cuba, Tunisia, Armenia. La lingua ufficiale era l’inglese ma ognuno, compresa me, inseriva nella conversazione, qualche parola della propria lingua. La contaminazione risultava evidente sia a voce che negli scritti. Così parlavo in italiano con una spagnola che mi rispondeva in spagnolo, in inglese ( con sicuri difetti di pronuncia) con la Tunisina che capiva anche qualche parola in italiano. C’era e c’è un modo che accomuna tutti, il linguaggio dei segni , come evidenzia Bruno Munari nel suo “Supplemento al dizionario italiano “, scritto in tre lingue. Ed anche in questo caso,comunque, ci sono differenze tra paese e paese. Usare lingue diverse, cercare di comprenderci in ogni modo è ricchezza, non impoverimento, se però l’intento è quello di creare connessioni, non ulteriori separazioni.

  7. Arturo falaschi Arturo falaschi

    Ho l’impressione che stiamo andando fuori tema, cara Grazia. E’ condivisibile il fatto che comprenderci sia ricchezza. Ma “comprenderci” è verbo coniugato al riflessivo e non è cosa da poco. Nel caso specifico non c’è nessuna reciprocità: si tratta di introdurre nelle lingue del mondo una solo lingua: l’americano. E siccome, citato da tutti noi, mi sembra, una lingua porta con sè una cultura, si tratta della surrettizia introduzione della cultura americana nell’intero pianeta. (Alberto Sordi, un americano a Roma, l’aveva già denunciato sessanta anni fa). Perchè l’americano, infine? Perché Paolo insegnava inglese? Perchè non il sanscrito o il cinese? Garantisco, me ne sto interessando in questo periodo, che in quelle antiche e recenti culture si trovano tesori preziosi assai per l’umanità. Si trovano, a mio avviso, gli anticorpi che potrebbero combattere il morbo letale, la cultura americana ufficiale, che ci sta uccidendo e già, lo sappiamo, ha ucciso e uccide. Non si tratta quindi di rifiutare l’altro, di isolarsi in uno stupido nazionalismo, si tratta di capire quando e se la contaminazione della propria lingua sia un arricchimento culturale o, piuttosto, una colonizzazione a scopi politici e mercatistici.

  8. Paolo Baroni Paolo Baroni

    Caro Arturo, tu sai quanto apprezzi il tuo anelito per la giustizia e il tuo disprezzo per la cultura colonialista del popolo che ha cancellato tradizioni, lingua oltre che gli abitanti stessi dalle loro terre del Nuovo Mondo. Ma dovresti riconoscere che la sopraffazione, il sopruso, l’ imperialismo non è solo caratteristica degli yankee. Ogni popolo che ha davanti a sé terra fertile, animali da macellare, risorse da sfruttare si comporta e si è sempre comportato da conquistatore. Pensa ai conquistadores spagnoli e portoghesi, agli Europei in genere in Africa, agli ebrei biblici, ecc. Anche i Romani, seppure abbiano esportato diritto, acquedotti e strade non l’hanno fatto per il bene dei popoli “visitati”, ma per sete di conquista, per esportare la loro “civiltà”. Quello che intendo dire è che “Homo homini lupus” del buon vecchio Hobbes, o Plauto se preferisci, è una verità inconfutabile. Quelli che la pensano come te, hanno ragione, ma dovrebbero capire che la soluzione, se ci sarà, la troveremo forse quando la smetteremo di dare la colpa a un singolo popolo, o a un singolo dittatore. La soluzione è lontana e va cercata nelle parole di quei visionari che hanno predicato l’uguaglianza e la fratellanza e che hanno tutti fatto una brutta fine. Sempre e dovunque.
    Con stima e amicizia.
    Paolo

  9. Arturo falaschi Arturo falaschi

    Sono assolutamente daccordo con te Paolo. La politica americano e occidentale in genere è soltanto l’ultimo stadio di una cultura che viene da lontano. Ma è lo stadio attuale e di questo stavamo parlando. Ancora daccordo nella ricerca e nell’ascolto di quei visionari che pure ci sono stati e ancora ci sono. Ma per porre orecchio al loro dire bisogna prima criticare duramente un presente inaccettabile.
    Quanto al buon (mica tanto) Hobbes, è proprio la sua visione euro centrica, estesa senza motivo su tutta l’umanità, che lui no conosceva, la stortura che ci ha portato qui a giustificare (anche fra noi) i delitti che quotidianamente commettiamo. In effetti, la maggior parte dell’umanità per la maggior parte del tempo, è vissuta in pace. Solo che la pace non fa storia e non lascia traccia. La storia parla solo di guerra: da qui la convinzione che la guerra sia la norma.

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