Pronti Attenti Blog! Tema 4: Viaggiare
La foto di copertina è stata realizzata dai grafici di a.l.a.
Quando ero molto piccola, molto prima di andare a scuola, facevo spesso due incubi.
Sempre loro.
Sempre uguali. Mai uno di fila all’altro.
O il primo, che chiamavo “quello del veliero”, o il secondo che non sapevo definire!
Il primo mi portava su una nave a vela, di legno, scricchiolante, puzzolente di alghe marce. Sentivo le corde delle vele schioccare e vibrare e rumori inquietanti, che venivano sia dal mare (di un grigio quasi nero, lucido come inchiostro), sia dal fasciame, che gemeva ad ogni ondata più forte.
L’incubo del veliero finiva quando, all’orizzonte, vedevo una massa scura e in movimento, in cui si apriva un enorme occhio vacuo.
A quel punto urlavo.
Mi svegliavo e capivo che era finita e mi riaddormentavo con un po’ di fatica.
Il numero due, il sogno anonimo, era molto peggio, anche se non capivo il motivo.
Cominciava con una specie di scatola chiusa in movimento, dove regnava il buio tranne qualche filo di luce molto in alto. Mi sentivo stanca e respiravo a fatica, perché la mia faccia era più o meno all’altezza dei fianchi di gente adulta. C’era puzzo di orina e di panni sporchi. Sentivo il disagio, la stanchezza e la sete. Il trantran non finiva mai e mi sembrava che, a momenti, mi addormentavo in piedi come i cavalli, quando fa troppo caldo.
Poi c’era uno stridore violento.
La scatola si fermava. Qualcuno l’apriva con un urlo di chiavistelli e la luce entrava improvvisa.
Io chiudevo subito gli occhi e mi tappavo le orecchie per non sentire urla e latrati.
Poi c’era il niente.
Non urlavo, non ce la facevo, mi trovavo a respirare forte, ansimando come un affogato e tremavo.
Ai grandi che mi chiedevano dei miei brutti sogni, io cercavo di spiegare, ma forse non ci riuscivo un granché o forse non volevano accettare che una moccolona facesse incubi così dettagliati ed inquietanti. Mio padre però capì. Non disse nulla, ma quando mi sentiva agitata mentre dormivo, veniva in camera mia – che in realtà era un divano nella sala di casa – mi prendeva fra le braccia, finché non smettevo di tremare. Una volta lo sentii bestemmiare e non era da lui, ma non gli chiesi perché. Anni dopo, alla scuola elementare, scoprii che erano esistiti galeoni e vascelli, che spesso affondavano durante le tempeste, ma dovetti aspettare di aver letto il diario di Anna Frank, intorno agli otto anni, per scoprire cosa succedeva agli ebrei che venivano catturati dai nazisti.
Smisi di fare quei due sogni verso i dieci anni, ma non li dimenticai mai. Non sono mai sbiaditi o cambiati di una virgola.
Restano archiviati nella mia memoria, come un armadio ingombrante che non si vuole aprire.
Da adolescente precoce, scoprii che qualcuno crede nella reincarnazione.
Quindi, secondo loro, gli incubi sono ricordi di vite precedenti. Io non so se ci credo, anzi, se ci voglio credere.
Mi piace di più il titolo del romanzo di Fred Uhlman riportato come motto da Woody Allen: “Niente resurrezione per piacere!”, ma non posso fare a meno di ritenere possibile un’eco di ricordi temporali, miei o di altri, che sopravvivono al tempo e allo spazio.
Detto questo, provate a immaginare come mi sentivo alla vigilia del mio primo viaggio ad Auschwitz. Ormai ero grande e ben informata da lettrice compulsiva e mai contenta.
Credevo di essere corazzata, di essere come un dottore di quelli bravi che non batte ciglio di fronte alle malattie più orrende, ma resta COMPOS SUI, padrone di sé, capace di rimanere impassibile e per questo più lucido nel curare.
Balle!! Mi bastò un’occhiata al binario che passava sotto il grande arco rossiccio della stazione, per capire che la scatola del mio sogno non ci era passata sotto. Fu lì che mi incamminai in piena controtendenza rispetto al gruppo.
Una strada, una massicciata, alberi sullo sfondo pieni di uccelli neri, poi lui, il vagone di legno, la mia scatola chiusa.
Chiusi gli occhi. Non serviva.
Non c’era niente e nessuno lì intorno, ma serrai le palpebre e mi tappai le orecchie.
Poi venne il tremito e il terrore.
Dopo ancora mi scoprii seduta per terra, bagnata di sudore e lì rimasi non so quanto, finché mi tornò normale il respiro.
Dopo aver pagato il pegno al mio incubo, entrai nel lager e lo visitai coscienziosamente.
Seguii il percorso consigliato, ascoltai la guida, mi mimetizzai con altra umanità sconvolta con cui non mi venne naturale condividere nulla, né una parola, né un’occhiata.
Non mi sconvolse, come a loro, la stanza piena di valige e ceste, quella piena di occhiali o di protesi, o di spazzole o capelli.
Il tremito mi riprese violento nella gigantesca stanza nera piena di fotografie.
Mi sembrarono tutti parenti, amici, vicini di casa e trovavo osceno che fossero appesi lì, nel nulla nero, in modo promiscuo.
Il muro delle fucilazioni non mi sconvolse, e poco le celle di punizioni che sembravano stallette per animali di taglia media, come pecore o maiali.
L’orrore puro lo provai andando verso il fiume, cioè verso i crematori di Birkenau.
La terra scricchiolava sotto i piedi.
Non erano sassolini o detriti di foglie secche, erano quintali di lamelle di ossa scoppiate a causa del calore, disperse nell’aria come proiettili infetti.
Ovunque. Ancora. Ovunque.
Non c’era una formica o una coccinella sull’erba, neanche un verme.
Nessun uccello dentro il grande recinto, nessuna forma di vita.
Solo fuori i rami erano pieni di corvi.
Molto toccante, coinvolgente. Grazie Manolia per il tuo scritto.
Terribile, ma la parola teriibile è un eufemismo.
Eppure quell’orrore si è ripetuto e si ripete. Nella nostra sostanziale indifferenza, come quella dei cittadini tedeschi che all’epoca abitavano nei paraggi.