Non è possibile concepire un pensiero filosofico che prescinda dalla riflessione su questi due termini, che si possono interpretare come opposti o complementari o entrambe le cose. E non sto pensando soltanto alla filosofia greca o comunque alla filosofia del mondo antico, ma ho presente l’intera storia della filosofia, a maggior ragione quella contemporanea. Per forza di cose bisogna partire dal celebre frammento di Eraclito: “La natura delle cose ama nascondersi”.
Ma che dire dei grandi interrogativi sollevati dalla teoria della relatività e poi dalla meccanica quantistica? La fenomenologia, tra fine ottocento e prima metà del novecento, ha provato ad addentrarsi nel cuore del problema, sospendendo linguaggi, stereotipi, preconcetti per “andare al cuore delle cose stesse.
E non si può dire che il tema riguardi solo i filosofi, o gli scienziati, come è ovvio, anche se la scienza talvolta simula di possedere l’oggettività. L’arte in genere, e si potrebbe dire la pittura e la letteratura in particolare, ruotano attorno a un dilemma analogo: celare, svelare la realtà, comunque mostrarla sotto una luce nuova, oppure antica, ritrovando la purezza dello sguardo infantile.
“Siamo ossessionati da noi stessi. Studiamo la nostra storia, la nostra psicologia, la nostra filosofia, la nostra letteratura, i nostri dei. Molto del nostro sapere è un rigirare dell’uomo intorno a se stesso, come fossimo noi la cosa più importante dell’Universo. Credo che a me la fisica piaccia perché apre la finestra e guarda lontano. Mi dà il senso di aria fresca che entra nella casa.”
È l’interessante riflessione di Carlo Rovelli in La realtà non è come ci appare, Milano 2014.
Come nel mito platonico, noi siamo tutti in fondo a una caverna, legati alla catena della nostra ignoranza, dei nostri pregiudizi, e i nostri deboli sensi ci mostrano ombre.
Cercare di vedere più lontano spesso ci confonde: non siamo più abituati. Ma ci proviamo. La scienza è questo (…) La sua forza è la capacità visionaria di far crollare idee preconcette, svelare territori nuovi del reale e costruire nuove e più efficaci del mondo. (pag.11)
Il problema principale, quando si parla di apparenza, riguarda il soggetto, colui al quale la cosa appare o si cela, che sia scienziato, filosofo o altro.
A proposito della teoria della relatività, osserva ancora Rovelli:
La nostra idea intuitiva di “presente”, l’insieme di tutte le cose che stanno accadendo “adesso” nell’Universo, è l’effetto della nostra cecità: della nostra incapacità di riconoscere piccoli intervalli di tempo. Il presente è come la piattezza della Terra: abbiamo potuto immaginare che la Terra fosse piatta solo perché, a causa dei nostri sensi e della nostra capacità di movimento, non vediamo molto più in là del nostro naso. (cit. pag.68)
A conclusione del ragionamento Rovelli afferma:
Tutto questo a prima vista suona come “una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore”. E invece è solo uno sguardo verso la realtà, un po’ meno velato di quello della nostra offuscata banalità quotidiana. Una realtà che sembra anch’essa fatta della materia di cui sono fatti i sogni, e tuttavia più reale del nostro annebbiato sogno quotidiano. (pag.80)
Come ci fa notare Maria Zambrano nel suo Filosofia e Poesia, Bologna 1998, il filosofo cerca di intraprendere un percorso verso l’unità, allontanandosi dalla molteplicità delle apparenze. Il poeta resta immerso nelle apparenze e, se cerca l’unità, si tratta di un’unità provvisoria, ricercata al di fuori di qualsiasi metodo.
Dalla parte della poesia c’è il delirio, l’ebbrezza, ma anche la malinconia, la desolazione.
Dalla parte della filosofia le consolazioni della ragione, l’attenzione vigile, il logos, la speranza.
Eppure la distanza tra i due approcci è minore di quel che si può credere.
D’altra parte l’idea stessa di apparenza presuppone la possibilità dello “svelamento”, come ben ipotizzato da Heidegger, quando paragona l’illuminazione filosofica alla radura che si apre all’improvviso nel bosco oscuro che ci circonda.
Non meno incisivi, in proposito, i versi di Eugenio Montale in Ossi di Seppia:
Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/ di me, con un terrore di ubriaco. / Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / alberi case colli per l’inganno consueto. / Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Come ci dirà più tardi, nella lirica d’addio alla moglie, “non mi servivano gli inganni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”.
Ed è questa l’ossessione fondamentale di tutti quelli che adottano un atteggiamento filosofico: la realtà non è quella che si vede. È un’ossessione ma forse anche l’unica possibilità di salvezza.
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Grazie Rosalba,
al solito scrivi e pensi in modo lucido e stimolante
Scimmiottando Severino:
La diconomia apparenza – realtà è una aporia che consegue la nostra abitudine di separare il soggetto dal predicato facendo di ciascuno un “noema”: solo una vuota parola.
Se penso all’apparenza (soggetto) come separata dal reale (predicato) e quindi tale che, di volta in volta, possa essere considerata realtà o irrealtà, la penso, l’apparenza, come né reale né irreale. Un astratto soggetto al quale, secondo i casi, possa a aggiungersi questo o quel predicato magari tra loro opposti; un soggetto che, proprio per questo, è privo di predicato; il ché è impossibile. Allo stesso modo vedo la realtà in sé come apparente e non apparente, (la realtà è apparenza – la realtà non è apparenza) il ché è impossibile.
E’ necessario tenere uniti soggetto e predicato prché il nostro dire abbia senso.
Così: apparenza della realtà, apparire della realtà, realtà apparente, realtà che appare.
Negando, perché nulle, una realtà senza apparenza o un’apparenza senza realtà.
Correggo un errore nel precedente commento: “Allo stesso modo vedo la realtà in sé né apparente né non apparente (quindi, a seconda dei casi, della realtà si può predicare l’apparenza o la non apparenza)